Giovanilismo ad ogni costo

In uno dei paesi, anagraficamente e a livello di mentalità, più vecchi del mondo, è quantomeno curioso parlare del giovanilismo come di una piaga. Eppure è così, sia nel calcio che nella società. Si preferisce una persona giovane a una più matura non per le competenze, le idee o il dinamismo, ma semplicemente per una ragione anagrafica. Perché far vedere di essere giovani, fino a raggiungere i limiti del ridicolo, è trendy, è cool, è in (almeno quanto lo è l’abuso senza freni di anglicismi nella nostra lingua), anche se poi non lo si è veramente. Perché conta più mettere in mostra (pochi, fortunati) giovani, portandoli in palmo di mano e usandoli come chiave di volta di idee fondamentalmente vecchie, che dare nella pratica a tutti i giovani che ne abbiano le capacità la possibilità di emergere per quello che valgono. Lo vediamo nelle alte sfere del potere politico e calcistico, dove sembra che a volte l’età di chi è al centro della scena sia inversamente proporzionale alla carica innovativa dei programmi, e dove i media organizzano una sontuosa campagna di stampa in favore di un candidato più giovane solo per questo motivo, senza rammentare che talvolta quest’ultimo è solo il portavoce delle posizioni dei poteri forti, egli stesso coinvolto anche in precedenti gestioni non esattamente di successo. Si passa quasi dalla gerontocrazia ad una “neaniocrazia”, senza che il concetto di meritocrazia sia però minimamente sfiorato.

Lo stesso vale per l’aspetto sportivo del mondo del calcio. Da un lato si trascura di investire seriamente e con criterio nei settori giovanili, dall’altro, proprio perché il fatto che un giovane ce la faccia è diventato ormai più un caso che una normalità come in altri Paesi, quei pochi che arrivano rapidamente ad alto livello vengono difesi a spada tratta, anche quando le loro qualità non sono o non sono ancora così eccelse, quando commettono errori da matita blu e quando non sono più così giovani: è il giovanilismo che giustifica sempre, quello dell’ “eh vabbé, so’ragazzi…”, e che però è tanto bravo a esaltare il giovane del giorno quanto a spedirlo nel dimenticatoio l’indomani, esponendolo ex abrupto al mondo vero dopo averlo iperprotetto per anni. Tanto bravo a chiedere a gran voce coraggio nell’utilizzo dei giovani, tanto lento a comprendere che il coraggio è qualcos’altro.

Perché in un Paese dove si punta seriamente sui giovani, nel calcio e non solo, si è “giovani” da fare inserire gradualmente in squadra a 18-19 anni: a 22-23 anni si viene considerati calciatori, e soprattutto uomini, maturi, e ci si aspetta che, nel campo e fuori, ci si comporti sempre come tali, dimostrando professionalità, serietà e impegno. Perché nei Paesi civili puntare sui giovani significa fare un “progetto giovani” senza proclamarlo, educarli a diventare maturi e affidare loro consapevolmente responsabilità, aspettandosi al contempo che ci si dimostri all’altezza di esse: evitando, soprattutto, l’esaltazione. Perché essa porta dal lato di chi se ne macchia a rendersi seriamente ridicoli – si pensi alle difese a spada tratta di El Shaarawy da ogni minimo appunto; dal lato di chi la riceve, invece, a montarsi la testa, a trovarsi proiettati senza alcuna gradualità in un contesto molto più grande , e a conseguenti cadute molto più rapide, e dolorose, delle ascese, che portano alla fine a non realizzare completamente un talento in certi casi smisurato (si pensi a Cassano e Balotelli, due a mio parere con i mezzi tecnici per diventare tra i migliori 5 del proprio decennio). Ma del resto, è difficile paragonarsi a quei Paesi dove solitamente si è fuori di casa massimo a 20-22 anni, invece che restare fino a 40 a farsi lavare i panni e cucinare da mamma come in certi luoghi di mia conoscenza.

P.S. So che in questo post non si parla molto di calcio. Ma, soprattutto in Italia, calcio e società sono due linee che si intrecciano molto spesso.